Lascia che crolli tutto


UNA RIFLESSIONE A MARGINE (MA TANTO A MARGINE) DI SKYFALL

{È stato pubblicato su inutile la settimana scorsa}

Volevo vedere Skyfall da mesi. Un po’ per motivi d’affetto (mio zio ha lavorato ai due film precedenti), un po’ perché Daniel Craig è bravo e figo, e un po’ perché da quando ha iniziato a circolare il primo trailer l’aspettativa era salita alle stelle. Si unisca a questo che l’unico altro filmone decente, quest’anno, è stato The Avengers, e capisci che ho davvero rotto le balle agli amici per andarlo a vedere venerdì.

E m’è piaciuto, tantissimo. Ora vorrei fare un discorso su alcuni dettagli del film cercando di non cadere nel mio solito vizio dello spoiler totale (sarà difficile, e se non hai ancora visto il film meglio che non leggi). Ci sono dei difetti, in Skyfall, di cui parleremo stasera con Aldo Fresia e Claudio Serena durante Ricciotto, il nostro podcast di cinema, e non li nego (almeno: non nego quelli che abbiamo commentato fuori dalla sala: se Aldo ne ha trovati di nuovi lo scoprirò con te, in diretta alle 21 su www.radionation.it): Sam Mendes cerca troppe inquadrature bellissime – e ne sforna di incredibili – a scapito spesso della tensione all’interno di quelle stesse scene. Il difetto di Skyfall è l’opposto di The Dark Knight Rises: dove Nolan si faceva le pippe con la sceneggiatura, cercando la perfetta quadratura del cerchio, e affogando in una sequenza interminabile e senza fondamento di paranoie sociopolitiche, nell’ultimo Bond la sceneggiatura è davvero solida, “vecchio stile”, ma portata a casa con un accento fuori luogo sull’estetica. Che è un difetto che comunque io preferisco, molto più delle pippe interminabili di Nolan.

Ogni tanto ci sono storie che si presentano come un gigantesco checkpoint nella vita dei personaggi, e la tagline solitamente è “niente sarà più come prima”: il personaggio deve affrontare qualche spettro del passato e sopravvivere, di solito a sé stesso e ai suoi stessi errori. Alla Marvel lo facevano ogni anno e a diciotto anni mi stancai del giochetto (anche perché in capo a qualche numero tutto tornava come prima), in Skyfall succede di striscio a Bond, mentre chi deve fare i conti con tutto è M, interpretata da Judi Dench. Dench, Dame Commander of the Order the British Empire, si ritrova a fare i conti con gli errori del passato e perseguitata da un suo vecchio agente, Silva, e l’unica spalla su cui può fare affidamento è 007: il quale però passa qualche mese nelle pesti e quando torna per aiutare M non è proprio in forma. «Non è più l’uomo che era», e per tornarlo ci impiega tutto il film.

La parte finale è ambientata nel profondo della Scozia, è il ritorno di Bond alla tenuta di famiglia. Il film si ferma poco, purtroppo, sul passato di 007, ed è un peccato, ma quel che ci mostra è affascinante. Quel che mi ha affascinato di più è stato il rapporto tra 007 e il suo passato, e come vive il presente l’agente segreto più famoso del mondo. In queste pennellate leggere Mendes e gli sceneggiatori sono stati davvero bravi: hanno evitato qualsiasi sentimentalismo spinto, lasciando solo qualche indizio (il fucile con le iniziali del padre, e la tomba dei genitori nella cappella vicino alla tenuta, e Kincade il guardacaccia che ricorda di quando disse al giovane James della morte dei genitori), che si sovrappongono quasi per caso e dipingono così il passato di 007. Lo so, il tema principale del film è altrove: nel rapporto fra Bond ed M e fra Silva ed M, e di sguincio tra Silva e lo stesso Bond: e però a me ha colpito quella cosa lì, il fatto che dietro il momento che stiamo vivendo adesso ci siano una lunga sequenza di altri momenti, altre giornate, che ci hanno fatto fermare, ci hanno fatto cadere, tornare in piedi e andare avanti, e magari abbiamo fatto un sacco di errori e magari li abbiamo anche ripetuti, però non per questo siamo giustificati dal fermarci e abbassare il fucile del papà. (Con le iniziali incise. Molto tamarro.)

A volte non sei più l’uomo che eri, e c’è bisogno di qualcuno che te lo ricordi e ti faccia tornare a te stesso. Sei inflaccidito dalla vita e dalla noia, o dagli errori, o da tutto e niente insieme: Daniel Craig inflaccidito non è, ma magari noi finiamo per esserlo. E non importa se sei una persona qualunque o un ex ufficiale della marina britannica che fa l’agente segreto, non importa se la tua vita tutto sommato va bene oppure se i tuoi sono morti in montagna, arriva sempre – per fortuna – qualcuno che ti dice di rimetterti in piedi: il tuo capo, tuo marito, un’amica. Magari fa male (magari ammazzano qualcuno davanti ai tuoi occhi, magari ti fanno solo un cazziatone), ma è qualcosa che va fatto: e va fatto caricandosi addosso anche i passi falsi e gli errori e il male che abbiamo compiuto (ché tutti, almeno una volta, del male abbiamo fatto, anche senza volerlo), e trasformando quella che sembrava una sconfitta in vittoria. O almeno provandoci: mica lo sa, 007, che alla fine riesce nelle sue imprese. In fondo, a Vesper non è andata tanto bene.

Ed è questo che rende figo il Bond di Daniel Craig, per me: è fallibile, e va avanti lo stesso. Dovrei farlo anch’io, più spesso.

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