Ti ricordi quando siamo andati via da Corso del popolo, che abbiamo fatto le valigie in tutta fretta e abbiamo fatto la strada in auto senza guardarci indietro, con la confezione di lettiera aperta e un paio di ciotole, e giusto un paio di scatolette per passare la notte in casa nuova? E quella sera mi sei stato addosso e mi hai riempito di fusa e nonostante tu avessi vissuto le ultime ore di vita di mio padre e fossi tu stesso bello scosso, eri lì a fare le fusa e consolare me.
Oggi non erano proprio fusa, quelle che emettevi, ché non avevi più forze. Eri stremato, mentre ti facevamo l’ecografia per capire che cosa potesse essere a farti stare così male, e sperare che ci fosse una ragione per questo crollo così improvviso. E quando abbiamo finito la visita e abbiamo rimesso il lettino nello studio, hai voltato – lentamente – la testa verso di me, e mi hai guardato. Non so quanto fossi cosciente, ma voglio pensare che tu mi abbia cercato, almeno un’ultima volta. Poi hai girato ancora la testa e ti sei rimesso disteso. La flebo non è servita.
La vecchiaia serve, credo, ad abituare all’idea del distacco: che è inevitabile, è giusto, è naturale: ma serve, appunto, la vecchiaia, perché si chiudano i conti, si chiudano le porte, e si aspetti con serenità. Noi abbiamo avuto una settimana, e anche se abbiamo fatto in tempo a dirci quello che dovevamo dirci (tu con le fusa e i tuoi sguardi secchi, io a modo mio, confusionario), è solo una settimana e non credo riuscirò mai ad abituarmi.
Il cuore rallenta, la testa cammina: a forza di essere vento.